sabato 14 marzo 2009

il proprio lavoro

mentre tornavo a casa a bordo della seicento, i pensieri si affollavano come sempre nella mia mente. le questioni da risolvere, i problemi da affrontare, i pochi giorni che mancano alla mia partenza, il sole che è finalmente arrivato, ma che magari tra un po' se ne va via e dobbiamo riabituarci a temperature fredde. poi, domani devo andarci perchè altrimenti settimana prossima è impossibile e poi parto, chissà quando se ne parla. bella questa canzone dei Bloc Party, la so già a memoria. che hanno combinato qui? facevano prima a fare una rotatoria, però non è poi tanto male, certo la condizione delle strade in Sicilia è proprio da fare schifo e poi vogliono fare il ponte...a che servirà mai? guarda una volpe morta, poverina...gli operatori ecologici hanno il deposito qui? certo, potrebbe tooglierlo quel cartone in mezzo alla strada e buttarlo invece di furmare la sigaretta...
e quindi stile epifania: "Chissà come sarebbe il mondo se ognuno di noi miliardi di persone sulla terra, facesse il lavoro che gli piace davvero, quello per cui si sente ispirato, quello che si fa a livello di vocazione e non perhè non c'è niente di meglio da fare...". quanti bravi medici che hanno a cuore il bene del paziente, quanti bravi ingegneri che progettano infrastrutture vivibili e di lunga durata, quanti bravi operatori ecologici che risanano l'ambiente, quante brave maestre che danno un futuro ai propri alunni, quanti brave mamme e bravi papà che fanno crescere generazioni di futuri bravi professionisti. forse nessuno farebbe il soldato, perchè diciamoci la verità a quanti piace farsi ammazzare? forse ci sarebbero posti di lavoro proporzionati alla gente che sta in giro. forse finalmente nessuno starebbe con le mani in mano. forse si potrebbe pensare alla piena occupazione a livello mondiale...
io utopizzo troppo.
dovrei pensare un po' meno e fare un po' di più.

sabato 7 marzo 2009

bisogna tornare


laddove oriente e occidente si mescolano in un turbinio di suoni, colori, odori e sapori...la vita scorre lenta, come nella migliore tradizione arabo-mediterranea, scandita dal canto del Muezzin che chiama a raccolta i fedeli. minareti che svettano alti verso il cielo, in mezzo a quartieri fatti di case ammassate una all'altra, di bazaar, di ambulanti che vendono pane e una bevanda calda e dolcissima, che sa di vaniglia e cannella.


la città dove gli uomini fumano il narghilè chiacchierando tra loro e le donne camminano per strada col foulard in testa. pochi sorridono, ma tutti hanno l'aria serena. la città divisa dal mare che entra dentro come un fiume e che divide l'Europa dall'Asia. la città dove un simpatico signore di Izmir, con madre italiana, ci accompagna a scoprire i posticini nascosti della città nuova attorno a piazza Taksim. la città dove la x non esiste e il taxi si chiama taksi. la città dove lo sfarzo degli antichi sultani si confonde con le case di legno nei quartieri vicino al mare.


e poi la carne e il pesce, i melograni e i cetriolini, il té e il caffè, la colazione salata e quella dolce, la frutta secca, miele, zucchero a zollette rigorosamente, e le spezie di tutti i colori che esistono sulla terra.


ma il blu predomina. il bosforo, da perderci il fiato; la moschea, bellisima; il rosa della chiesa di Santa Sofia dimenticata e abbandonata a sè stessa; il bianco dell'abito dei dervishi rotanti; le luci di miriadi di lampade variopinte.


un luogo che quando vai via non puoi che sospirare, perchè camminando e ammirando ti si è attaccata addosso e ti ha completamente invaso...mille strade, milioni di persone e tantissime contraddizioni che creano una mixture che ha solo dell'incredibile. affascinante e indimenticabile. Arrivederci a presto cara Istanbul.